I radiofonici rischiano di perdere il treno della riforma
Quando abbiamo letto alcuni dei contributi che formano il dossier radiofonico della riforma del Testo Unico dei Servizi di Media Audiovisivi e Radiofonici Digitali (TUSMAR), non volevamo credere ai nostri occhi. Tanto che ce li siamo stropicciati ed abbiamo dato attenta rilettura. Tutto vero, invece. E purtroppo. Vediamo cosa è successo. Anzi, cosa sta succedendo; posto che, forse (e speriamo), i giochi non sono ancora conclusi.
Matrioske
Partiamo da un dato di fatto: il sistema media italiano soffre di nanismo di scala. I superplayer mediatici sono nani verso gli OTT. Il sistema radiofonico italiano, da sempre, vive – sotto il tavolo – delle briciole cadute dal (sempre meno) lauto pasto dei player tv. Gran parte delle radio locali italiane sopravvive (sempre più) miseramente nell’ombra di quelle nazionali.
Nanismo imprenditoriale
La causa del nanismo imprenditoriale diffuso è da tutti questi soggetti (fuori dagli OTT) da sempre addebitato – in particolare dalle rappresentanze di categorie (in verità sempre meno rappresentative) – ad una regolamentazione anacronistica ed imbrigliatrice. Che, con lacci e lacciuoli ormai scollegati dalla realtà fattuale (e in certi casi anche giuridica), impedisce l’attività in un mercato sempre più competitivo.
Anacronismo giuridico
Dato di concetto: se nel linguaggio comune l’anacronismo è una disfunzione cronologica, nel mondo giuridico esso si manifesta allorché la norma si presenta in contrasto con l’evoluzione dell’ordinamento. Una circostanza, questa, che può condurre sino all’illegittimità sopravvenuta del dato normativo.
Obiettivo di un T.U.
E, infatti, tra i compiti di un Testo Unico (quale è il TUSMAR, quindi) c’è proprio quello di correggere gli anacronismi giuridici.
TUSMAR
E nel TUSMAR di anacronismi ce ne sono tanti. Troppi.
Uno, macroscopico (che spesso abbiamo portato in evidenza su queste pagine), è l’art. 2, comma 1, lettera v) del D. Lgs. 177/2005 (il formante giuridico del T.U.), che stabilisce l’ambito locale radiofonico, fissandolo fino a 15 mln di abitanti (inclusa la copertura di soggetti controllati o collegati). La stessa fonte normativa, alla lettera z), connota l’ambito televisivo locale in “uno o piu’ bacini, comunque non superiori a dieci, anche non limitrofi, purché con copertura inferiore al 50 per cento della popolazione nazionale“. Una evidente quanto ingiustificata discriminazione.
Prandi: fissare paletti ha davvero poco senso
Due settimane fa avevamo chiesto ad un importante editore locale, Gianni Prandi della superstation Radio Bruno, se avesse ancora senso la distinzione (ormai spesso solo amministrativa) locale/nazionale?
“Dipende cosa si intende per Radio Locale”, ci aveva risposto Prandi. “Se si intende una radio che cerca di parlare ed essere presente nel territorio che copre, allora sicuramente sì. La distinzione invece classica la intendo superata dai fatti. Ci sono molte radio cosiddette locali che coprono molte regioni, a volte quasi tutte. Se poi aggiungiamo il discorso web, che ormai tutti hanno, credo che sia illogico fissare paletti che ormai hanno davvero poco senso“. Un discorso di buon senso, all’evidenza.
Normalizzazione, finalmente
Quindi, ci si sarebbe attesi che la proposta di normalizzare la dimensione diffusiva di una radio locale via etere rispetto a quella di una televisione locale nell’ambito della revisione del TUSMAR fosse salutata da tutti (editori nazionali e locali) come un segnale di adeguamento ai tempi ed al mercato. Prima che una indispensabile correzione di una stortura giuridica.
E invece no
Nell’ambito dell’audizione pubblica sul riordino del TUSMAR in attuazione della direttiva (UE) 2018/1808, una serie di radio locali ha invece contestato al ministro allo Sviluppo Economico Giorgetti ed alla sottosegretaria Ascani la normalizzazione della diffusione radiofonica verso quella televisiva.
La motivazione?
La motivazione opposta dai radiofonici locali contrari alla possibilità di una (propria) crescita è che l’estensione della dimensione diffusiva sarebbe poi sfruttata dalle radio nazionali. Le quali, così, concorrerebbero sul mercato pubblicitario attraverso ulteriori reti paranazionali.
Al di là, della contorsione del ragionamento (per dirla alla fiorentina: “Si fa come quello che si tagliò i’ cinci pe’ fa’ dispetto alla moglie“) che dovrebbe fa drizzare le antenne, per rimanere in tema, a rendere ancora più paradossale la questione c’è un altro fatto. Si fa come quello che si tagliò i’ cinci pe’ fa’ dispetto alla moglie
Cioè che, a lamentarsi, a quanto risulta dai documenti che abbiamo esaminato, ci sarebbero anche alcune radio nazionali. Le quali, pur gestendo nei loro gruppi radio locali che con la riforma potrebbero crescere, sono spaventate dal fatto che alcune superstation potrebbero svilupparsi oltre gli attuali limiti. Si fa come quello che si tagliò i’ cinci pe’ fa’ dispetto alla moglie.
Sensitivi
La nostra sensazione, in realtà, è che, da una parte, ci siano pesanti strumentalizzazioni delle radio locali direttamente dal loro interno e, dall’altra, non ci siano affatto idee chiare ed innovative sul futuro mediatico da alcuni editori nazionali.
L’illuminazione di Giorgetti ed Ascani
Ora speriamo che il ministro Giorgetti e la sottosegretaria Ascani, che nei giorni scorsi si sono mostrati lungimiranti verso la necessità di evitare lo tsunami del sistema tv locale attraverso uno switch-off troppo ravvicinato ed un bando FSMA a metà agosto – esigenza esaltata fino allo sfinimento dalla nostra testata, cui si erano accodate le associazioni di categoria (e non viceversa, è opportuno evidenziarlo ai deboli di memoria) – siano altrettanto “illuminati” in tema di “illuminazione radiofonica”. Non facendosi condizionare da retaggi da medioevo radiofonico. O da interessi apparenti di radio locali.
In collaborazione con: newslinet.com